Natale è il periodo in cui i bambini sono al centro delle attenzioni di tutti. Per questo è anche il tempo delle fiabe e dei racconti, delle leggende che si raccontano oralmente e che si tramandano da centinaia di anni ed allora abbiamo provato anche noi a raccogliere qualche fiaba tipica del Monte Amiata che per secoli i nostri nonni e bisnonni si sono sentiti raccontare da piccoli nelle lunghe veglie serali, davanti alla stufa o al caminetto, in attesa della notte delle Fiaccole. Ve ne presentiamo solo alcune tra le più caratteristiche del nostro territorio.

Tra le più autentiche c’è senza dubbio quella del Drago della Selva. Una bestia che, stando alla leggenda, nel XV secolo si aggirava nei boschi tra la Selva e Santa Fiora divorando uomini e animali a proprio piacimento. La particolarità era che di questa belva (che gli uomini avevano imparato a temere e che chiamavano “Cifero Serpente”) non si poteva fare il nome, poiché ogni volta che lo si nominava succedeva qualche disgrazia. Guido Sforza, il conte appartenente alla famiglia che dopo l’antica casata degli Aldobrandeschi dominava la contea di Santa Fiora, decise di recarsi a sconfiggere il drago personalmente e una volta ucciso il nefasto animale, fece erigere sul luogo dell’uccisione una cappella dedicata alla Santissima Trinità, che poi divenne il convento della Selva. Proprio all’interno del convento, ancora oggi, si conserva il teschio del drago ucciso dal conte Guido.

Un’altra fiaba assai nota è quella del Prato della Contessa. In questa radura di montagna fu organizzato nel medioevo dai monaci di San Salvatore, secondo la leggenda, un torneo tra cavalieri. A chiederne con insistenza l’organizzazione era stata la contessa Gherarda Aldobrandeschi e le sue motivazioni erano tutt’altro che legate alla bellezza e meraviglia che potevano destare i giochi equestri, nel paesaggio incantato della faggeta, a circa 1400 metri di altitudine. Gherarda si era infatti innamorata di un nobile cavaliere, Adelardo da Chiusi, che aveva veduto per la prima volta in una giostra a Buonconvento. Se n’era invaghita al punto da convincere i monaci, nel cui convento trascorreva molte settimane all’anno per studiare, ad organizzare il torneo solo allo scopo di rivederlo.
Quel prato divenne il luogo del loro amore, dove i due giovani nobili si incontravano nelle fresche giornate estive di montagna per amoreggiare sul prato in mezzo ai faggi. Poi però, Gherarda era stata data in sposa ad un rampollo della famiglia Orsini di Pitigliano e, per il dolore, Adelardo si era chiuso in un convento. Ma la leggenda vuole che qualcosa di magico e di mistico abbia continuato ad aleggiare sul Prato della Contessa. C’è ci racconta che le fanciulle dei paesi vicini venissero inspiegabilmente attratte in quel luogo e che lì amoreggiassero con gli angeli, dando poi alla luce bambini bellissimi che nominavano Serafino, Cherubino, Gabriele o Michele. Un’altra versione vuole invece che ancora oggi lo spirito della Contessa vaghi disperato su quel prato alla ricerca del suo amato Adelardo.

Di leggende simili ve ne sono molte altre, come quella della grotta del mago ad Arcidosso, quella delle buche delle fate, quella degli gnomi del Ròmito o quella della chioccia dai pulcini d’oro ad Abbadia. Se ne potrebbero raccontare moltissime, ma poiché parliamo di Natale vale la pena ricordare almeno una novella. Di novelle se ne raccontavano a decine e tutte avevano lo scopo, con la loro morale, di mettere in guardia i bambini dal compiere un certo tipo di comportamento. Molte di queste arrivavano dal senese o, più spesso, dalla Maremma e venivano rivisitate in chiave montanara.
Tra queste colpisce la storia della Gatta Pitarra (co’ un cornu drittu e unu tortu e se venghi su te lu piantu ne’ ‘i corpu!). Nella fiaba, un bambino di nome Giovannino compie il gravissimo errore di uscire di casa lasciando la porta aperta e, nel tornare, scopre che in casa sua c’è la Gatta Pitarra che non ha alcuna intenzione di andarsene. Né l’aiuto di un cane, né quello di un maiale riescono a risolvere una situazione. Solo un uccellino, furbo e scaltro, picchiettando col becco sulla testa dello sgradito ospite libera la casa per la grande gioia di Giovannino che da quel giorno ci penserà due volte prima di dimenticarsi la porta aperta.